Alla gara per conquistare il titolo di “Paoluccio” potevano partecipare solo le “vere” trattorie

Se fosse stata scritta, il suo autore, Walter Arosio, avrebbe dovuto lavorare non poco perché ai tempi…

Se fosse stata scritta, il suo autore, Walter Arosio, avrebbe dovuto lavorare non poco perché ai tempi della “Valli” che noi ricordiamo, i “Paolucci” erano numerosi e tutti degni di citazione, e non solo nella Bergamasca. Cos’è un “Paoluccio”? Oh buon Dio, chi non lo sa? E’, anzi purtroppo, era la trattoria! La trattoria di allora (che in tutti i paesi d’Italia esisteva per la gioia dei veri golosi di cose buone e, sulle strade, dei camionisti) era un locale che ora è scomparso. Per ottenere il titolo di “Paoluccio” il locale doveva avere i seguenti requisiti: Aspetto esterno: una cascina nuda e cruda, tutt’al più imbiancata, con una scritta dipinta sulla porta d’ingresso con il nome di battesimo del proprietario. Qualcuna poteva anche mostrare un’antica originale insegna in ferro battuto o in lamiera verniciata, ma nient’altro di più. Aspetto interno: piuttosto fumoso, con soffitto basso, pavimento in mattoni un po’ sconnessi o (lusso!) in legno. Tavoli rigorosamente in legno massiccio, senza tovaglie, con la sedia pure in legno o impagliata. Alle pareti brocche o vasi di coccio sbrecciati, uno specchio con vetri colorati come cornice, e qualche decorazione pittorica elementare fatta a mano e semicancellata dal tempo. Un camino. Conduzione: rigorosamente familiare. Menù: inesistente. Si entrava, ci si sedeva e il proprietario, dopo un breve cenno di saluto, metteva sul tavolo posate di alluminio, piatti in terracotta, due o tre vasi, pure in coccio contenenti sottaceti fatti in casa. Pane casereccio e vino bianco o rosso assolutamente anonimo, presentato in bottiglie aperte o in boccali classici. Non chiedeva mai: “cosa volete?” ma noi si diceva: “cosa c’è?”. Anche questo era un requisito inalienabile per ottenere il nome sulla guida “Paoluccio”! Di giorno in giorno, di stagione in stagione, di provincia in provincia, si mangiava quasi senza eccezione, il piatto locale, fatto in casa dal proprietario per se e per gli avventori. La compagnia e i sapori si fondevano come in una sinfonia deliziosa per cui, quando si ritornava sul campo di gara, sulle prime si faticava un po’ a rendersi conto che tizio aveva preso “un punto” al quinto controllo, che Caio aveva forato e che, purtroppo, Sempronio era in ritardo. Ah, dimenticavo il prezzo che si pagava ai “Paoluccio” venti anni fa: forse due o tremila lire, oggi potrebbe essere come massimo quindici/ventimila lire. Walter Arosio non ha mai scritto la guida “Paoluccio e non avrebbe fatto in tempo perché con la velocità del fulmine, come sono scomparse le mulattiere della “Valli”, così si sono dissolti i “Paolucci”. Oggi, invece, infissi in alluminio, menù con nomi strani e, come è successo tre anni fa a Genova, sessantamila lire a cranio, la compagnia era la stessa, l’atmosfera decisamente no, il cibo troppo raffinato. Addio, Paoluccio!

Mario Tremaglia Dal giornale per il “7° Minetti Trophy – Enduro delle Orobie” Bergamo 5 maggio 1991

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